12 aprile 2010

Dolce è Gabbare

I due stilisti sotto inchiesta per evasione fiscale e truffa ai danni dello Stato: in ballo 370 milioni di euro

di Leo Sisti

Evasione fiscale con annessa truffa allo Stato. Sono queste le due ipotesi di reato nell’inchiesta della Procura di Milano che coinvolge Dolce e Gabbana, ovvero D&G. E che è ormai in dirittura d’arrivo. È vicina cioè la conclusione dell’indagine preliminare, con il suo possibile sbocco: la richiesta del pm Laura Pedio, al gip, di un rinvio a giudizio. In pratica, potrebbe essere il processo per gli stilisti più amati dalla rockstar Madonna, dall’attrice Jennifer Lopez o dal portiere interista Julio Cesar. Per Domenico Dolce e Stefano Gabbana, ovvero D&G, è un brutto colpo, sotto due aspetti.

Da una parte il profilo penale, appena descritto. Dall’altra il profilo fiscale, che è l’antefatto del primo, e che potrebbe costare alla coppia ben 370 milioni di euro, da pagare all’erario. Per capire qualcosa di una complessa vicenda, partiamo da lontano. Da quando nel 2004 Dolce e Gabbana decidono di spostare dall’Italia al Lussemburgo il cuore dei loro interessi. In una parola, i marchi della “ditta”, la polpa: royalties riscosse sulle vendite di occhiali, borse, abiti, profumi, orologi, scarpe, profumi o mutande. Marchi che trasmigrano quindi dalla “D&G srl” di Milano per planare in Lussemburgo, nella “Gado sarl” (“Gado” è l’acronimo di Gabbana e Dolce), controllata da un’altra società lussemburghese, la "Dolce e Gabbana Luxembourg sarl". Con un suo prezzo, ovvio. Così la “D&G” cede la proprietà dei marchi alla consorella del Gran Ducato per 360 milioni di euro.

Dubbio estero

Fin qui sembrerebbe una semplice ristrutturazione finanziaria. Si penserà. Ma D&G hanno trasferito anche là, nel grigio Lussemburgo, la loro attività: invece, no. Perché nel 2007 la Guardia di Finanza di Milano, spulciando nei loro conti, scopre che negli uffici di rue Guillaume Kroll, sede della "Gado srl", girano sì delle carte, ma quelle veramente importanti devono sempre prendere la via di Milano. Dove le Fiamme Gialle hanno sequestrato montagne di documenti. Così, ad esempio, da una serie di e-mail dell’aprile 2004, viene fuori che un contratto con Motorola per un cellulare targato "Dolce e Gabbana" viene gestito nella milanesissima via Goldoni, quartier generale del gruppo.

E quando nell’agosto 2005 sono in discussione le bozze di bilancio delle due società lussemburghesi, in una e-mail fa capolino il suggerimento ad hoc: “Tema da affrontare: sarebbe meglio fare Board e assemblee in Lussemburgo”. Una preoccupazione che viene commentata dagli investigatori della GdF con queste parole: “E’ chiaro lo scopo di legittimare, quanto più possibile, il Lussemburgo, e non l’Italia, come centro decisionale ed amministrativo della società”. La realtà è però un’altra. Nel Gran Ducato c’è solo un ufficetto. È invece in via Goldoni che Domenico Dolce e Stefano Gabbana fanno tutto. Insomma, è la classica “estero vestizione” . Che nasconde profitti italiani, tassati in quel paradiso fiscale intorno a un modesto 3 per cento, dieci volte meno che nel Bel Paese. Il che ha fatto “risparmiare” al duo D&G qualcosa come 260 milioni di euro, che il pignolo fisco italiano ha invece segnato come imponibile, ovviamente “mancato”, e pertanto non dichiarato negli anni 2004, 2005 e 2006. E quindi pretendendo imposte per parecchie decine di milioni.

Poveri quattro soldi

Sarà per questi loro guai in materia di tributi che Dolce e Gabbana, intervistati nel 2008 da Daria Bignardi per il programma tv Le invasioni barbariche, si sono sfogati. In particolare Domenico si è scagliato contro l’Italia per le troppe “tasse, tasse, tasse, tasse”. Per poi aggiungere: “Se oggi uno ha successo e fa quattro soldi lavorando deve essere inquisito, penalizzato…è un ladro”. In quell’occasione il suo socio Stefano ha inneggiato anche a Berlusconi: “Non ha mai avuto (nelle sue aziende, ndr) un cassintegrato. Dà da mangiare a milioni di persone. È un manager di tutto rispetto.

Se amministrasse il paese come amministrano le sue cose…”. Per inciso, la trasmissione di Bignardi è andata in onda il 22 febbraio di due anni fa, alla vigilia delle elezioni politiche poi vinte da Silvio Berlusconi, vicino di casa nella villa ligure di D&G: loro nella superba Villa Olivetta, a Portofino; Silvio, nel castello di Paraggi. Le imposte, che ossessione per D&G. Perché all’Agenzia delle entrate stanno facendo i conti in tasca ai due geniali stilisti ponendosi una domanda: ma quel loro marchio, venduto alla lussemburghese Gado, per 360 milioni di euro, vale questa cifra, come attesta una perizia di Price Waterhouse? O non è, per caso, “sottovalutato”?

Tira e molla

Per l’Agenzia sì. Per questo i suoi 007 dovrebbero trattare con i consulenti del duo il “giusto prezzo”. Consulenti ben noti: per la parte penale, l’avvocato Massimo Dinoia, e, per quella fiscale, Dario Romagnoli, dello studio legale Tremonti e associati (da quando è ministro, però, Giulio Tremonti si è “autocongelato”). E’ il gioco del tira e molla. Per ora l’Agenzia valuta, in base a complicati parametri, intorno ai 700 milioni di euro il valore del marchio.

Da parte di D&G, al momento, tutto tace. Senza accordi, e se gli uomini del fisco mantenessero quella loro valutazione, nella più negativa delle ipotesi, il futuro li vedrebbe procedere al cosiddetto “accertamento”, seguito da una contestazione, appunto per 700 milioni circa. Con questo possibile scenario: sottraendo, a questa cifra, i 360 milioni di valore attribuito da D&G al marchio, se ne otterrebbe un’altra che, a causa di un effetto moltiplicatore, tra sanzioni e interessi, genera la somma di 370 milioni di euro. Tutti da versare allo Stato delle “tasse, tasse, tasse, tasse”. Che cosa risponderanno D&G?

da Il Fatto Quotidiano del 11 Aprile

Condividi

Nessun commento:

Posta un commento

Lascia un commento